Gaspar Borchardt è un uomo alto, parla un italiano con marcato accento tedesco e nasconde benissimo, nel viso e nella passione dei ragionamenti, i suoi 62 anni. È liutaio. Lo incontro nel suo laboratorio in piazza Duomo, la luce entra da un finestrone che offre alla vista il Battistero e una fetta di cattedrale.
Mi dice che il giorno prima è rientrato dalla Liguria dove, nel «fazzoletto di terra» che possiede, ha raccolto e raspato tanta uva da farci uscire, crede, 53 bottiglie di Sauvignon bianco. «Mio figlio torchierà le bucce il prossimo fine settimana, poi aspetteremo la fermentazione fino a primavera».
Un uomo “tranquillo” non si compra un vigneto alle Cinque terre se non produce vino di mestiere. A un uomo “tranquillo” non capita nemmeno di svegliarsi di notte con una «nuova idea» su come costruire i violini, correre in laboratorio e mettersi a provarla. La vita di Gaspar Borchardt è sempre stata in movimento. È fatta di un «fuoco dentro», dice, che lo tiene «vivo». Che lo spinge a una continua ricerca del «nuovo». «Nella liuteria c’è sempre qualcosa da scoprire – dice –. Se uno inizia a ripetersi, tutto diventa noioso». Capite?
Le novità (cercate o subite) sono uno stigma che si imprimono su quest’uomo sin dall’infanzia. Gaspar nasce in Cile nel 1961, dove la famiglia, di origini tedesche, si trova per lavoro. Nel 1965 approda in Messico, sempre per seguire la professione del padre, ma quattro anni dopo arriva in Germania. Lì, Gaspar resta fino a diploma conseguito e servizio civile effettuato, poi l’arrivo in Italia. «Nella mia famiglia la musica c’è sempre stata. Mia mamma ha fatto canto e pianoforte, per passione. In pancia l’avrò sentita suonare e cantare di sicuro», racconta. Alcuni vecchi articoli di giornale, ritrovati da suo padre, riportano addirittura le recensioni di una bis nonna cantante d’opera.
Il legno è un’altra cosa che lo attrae in modo irresistibile fin da piccolo. «Dopo l’arrivo dal Messico, ricordo che in garage avevamo tenuto le casse di spedizione. Io ero incantato nel vederle; ho capito che avevo una mia affinità con il legno. Chiedevo sempre ai miei genitori dei piccoli attrezzi per lavorarlo. Facevo sculture simili a quelle che ci sono sull’isola di Pasqua, le regalavo a mia mamma e lei mi diceva: che belle. Ma erano orribili (ride, nda)».
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